Risposta alla disinformazione in rete sulle case famiglia

il funamboloLeggendo il prolisso articolo che la giornalista Lidia Baratta ha pubblicato su Linkiesta, lo scorso 21 gennaio, dal titolo “Orfanotrofi: umiliati e offesi”, ciò che salta immediatamente agli occhi di un lettore mediamente informato e attento alle tematiche che la suddetta propone con apparente dovizia di particolari, è la scarsa precisione di alcune informazioni.

Dati raccolti in modo informe, nei quali vengono confusi aspetti sociali, istituzionali, economici e politici e dai quali emerge la totale superficialità con cui ha approcciato il mondo di cui parla: quello dei minori allontanati dalle famiglie – e non orfani – e delle strutture che li ospitano.

Tale articolo non può passare inosservato né può essere lasciato privo di una replica. Forse ciò può permettere a coloro che si interessano all’argomento di avere una idea più chiara ed esaustiva, la quale magari metta l’accento su ciò che veramente funziona male e non sulle realtà che spesso sono vittime di ingranaggi istituzionali disfunzionali.

I minori che annualmente sono inseriti nelle case famiglia non sono ormai da decenni bambini e adolescenti orfani che hanno bisogno di un tetto sulla testa e di un piatto caldo, di una istruzione e di vestiti puliti, né minori che vengono sottratti a famiglie poco abbienti che risolverebbero le gravi difficoltà se i soldi delle rette venissero dati loro per gestire meglio la prole. Qui il punto è esattamente agli antipodi di quanto indicato dalla giornalista. Ovvero: dal suo articolo sembra che la famiglia si costituisca come agenzia positiva a priori, in seguito ad una sorta di pregiudizio morale, mentre per chi lavora sul campo è spesso purtroppo chiaro che proprio in famiglia si consumano terribili traumi, fisici e psicologici. Ciò è un dato clinico e non un giudizio morale.

I ragazzi e bambini accolti sono persone che fin dai primissimi periodi della vita hanno vissuto traumi gravi e significativi i quali hanno inciso in modo definitivo sul loro funzionamento mentale. Bambini che fin dai primi anni presentano quelli che oggi vengono chiamati disturbi dell’attenzione e della sfera emotiva e che crescendo e arrivando in adolescenza possono sviluppare disturbi di personalità, come quello borderline o antisociale che ne faranno adulti infelici e sofferenti (le condotte antisociali degli adulti hanno un costo molto elevato per lo Stato). Solitamente arrivano nelle case famiglia adolescenti che si tagliano, si prostituiscono, fanno uso di sostanze, hanno tentato il suicidio, hanno ferito, sono sfruttati e bambini che sono stati vittime di violenze fisiche e psicologiche evidenti.

Arrivano frotte di adolescenti che sono vittime di adozioni fallite e che i genitori adottivi hanno restituito al mittente come merce avariata alla prima avvisaglia di disagio. Non visti, come nel brutto articolo della signora Baratta.

Le strutture che ospitano tali minori sono gestite nella maggior parte dei casi da giovani professionisti psicologi ed educatori che, sulla base di formazioni altamente qualificate, studi approfonditi, supervisioni mensili con esperti del settore, hanno l’obiettivo di intervenire in un’ottica curativa e terapeutica rispetto ai bambini e agli adolescenti che ospitano. Se i minori vanno aiutati a guarire dalle loro ferite dell’anima è evidente che il tempo per la cura è un tempo più lungo che necessita di una presa in carico a tutto tondo del minore. Questo spiega con chiarezza che lo sconcerto che la giornalista esprime rispetto alle tempistiche della permanenza in casa famiglia viene facilmente risolto con una maggiore conoscenza dell’utenza di cui lei tenta di parlare.

E’ interessante notare anche la grande confusione fatta tra case famiglia e comunità terapeutiche mettendo in un unico grande calderone mangia soldi tutte le realtà del settore e risolvendo la questione con una superficiale differenziazione del personale. La legge Basaglia, che ha chiuso i manicomi di cui la Baratta parla, ha dettato le modalità di aiuto che le differenti strutture devono garantire alla propria utenza secondo i diritti sanciti dalla Costituzione e secondo le inevitabili differenze che le varie modalità di lavoro richiedono sia su un piano economico che lavorativo. In sintesi il disagio sociale e psicologico viene affrontato sul territorio e da qui nasce il dispositivo della piccola comunità. Un’origine nobile che la Baratta probabilmente non conosce o ha del tutto dimenticato. Infine, tra le tante cose che ci sarebbero da dire, vanno spese alcune chiare parole proprio sulla questione economica.

Per quanto riguarda la legittima domanda sui costi reali delle strutture, un’inchiesta ricca e puntuale avrebbe intercettato gli studi che sono stati compiuti in tal senso; infatti sono diverse le associazioni che tentano un dialogo con le istituzioni e che nel 2015 hanno presentato uno studio sui costi. Ora il punto è che questi costi sono nettamente superiori a quanto il Comune di Roma, per esempio, paga le strutture. Ma sono molteplici le situazioni simili questa. A questo punto chiediamo alla signora Baratta quali conti lei abbia fatto, in quanto è evidente che nel territorio del comune di Roma con le attuali rette, un operatore possa essere pagato 1,54 euro l’ora. Giovani educatori e psicologi che vanno a formare una sorta di nuovo proletariato, in quanto lavoratori di un Welfare che la politica e un giornale come Linkiesta sembra desiderino smantellare.

Se poi singole comunità in Umbria e Veneto (tra l’altro comunità terapeutiche non case famiglie ma abbiamo capito che questa differenza non è stata colta) hanno una retta di 400 euro al giorno, chiediamo ancora alla signora quale sia il meccanismo logico (logico, non mediatico!) che porti l’eccezione a divenire regola.

Da ultimo chiediamo dunque alla signora Baratta quale finalità avesse il suo articolo, dal momento che denunciare una cattiva gestione dei soldi pubblici ha come presupposto che avvenga il fatto, mentre qui sembra che i fatti siano sostituiti da pregiudizi. Pregiudizi pericolosi perché non considerano che quei servizi sono a tutela dei diritti dei minori. Sarebbe da chiedersi perché lo stesso principio non lo attui nei confronti di un ospedale, che come noi fornisce cure, o molto più semplicemente perché, parlando dei tariffari nazionali inesistenti e della problematica evidente a livello istituzionale, non venga approfondito questo aspetto, mettendo in luce la perniciosità del sistema politico ed istituzionale invece di puntare il dito sulle realtà di aiuto che secondo le sue incerte informazioni proliferano e crescono mentre nella realtà chiudono in assenza di fondi e sostegno pubblico.

Francesca Fabiani, psicoterapeuta, responsabile CF Rosa Luxemburg

e Tommaso Romani, psicologo, responsabile area progetti Coop Il Funambolo

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