Come si gestisce un sogno

In sé la parola “casa famiglia” dice tutto e subito, ma mantenere un clima di tipo familiare all’interno delle nostre strutture di accoglienza richiede impegno e formazione che ciascuno dei nostri enti porta avanti ogni giorno, potendo contare insieme sulla professionalità degli operatori e la gratuità dei volontari.  E’ necessario un mix di competenze esterne reperibili sul mercato con altre interne fatte di fedeltà ai valori, di formazione interna e di tante altre cose, che spesso i nostri interlocutori pubblici ignorano.

Marco Veronesi, responsabile della comunità “il Chicco“, associazione che gestisce case famiglia per disabili adulti e che fa riferimento al modello dell’Arca di Jean Vanier, ha scritto il libro “Il Chicco un bene comune da conoscere e condividere”. Ne pubblichiamo il brano “Come si gestisce un sogno“.

sognoIn comunità succedono tante cose, la maggior parte delle quali sono di natura intangibile: si svolgono attività educative, riabilitative, ludico espressive, che alla fine non lasciano un oggetto, un prodotto che si può trasportare esaminare, modificare. Si cucina e si pulisce, si costruiscono oggetti di ceramica o di carta, si coltiva l’orto, ma il cuore della comunità è fatto di impalpabilità. Come forse direbbe Prospero (W. Shakespeare, La Tempesta, Atto IV): “il cuore della comunità è fatto della stessa materia con cui sono fatti i sogni”.
È una realizzazione di comunicazione, di incontro esistenziale, di scambio di significati, ansie, investimenti, umori, idee. È una “produzione” di risultati immateriali: integrazione, cultura, coordinamento, creatività, benessere, sofferenza, gioia, desiderio, preghiera. Prendersi cura dell’altro, valorizzarlo come singola persona importante, accoglierlo nell’unicità del suo problema, della sua esistenza, vuol dire rendere unica ogni singola relazione, ogni singolo intervento. Pur essendo, tutto quello che avviene in comunità, molto concreto, è al contempo inafferrabile, materialmente inconsistente ed evanescente.
Non potrebbe essere altrimenti. C’è un lavoro “nascosto” notevole, che impegna molte persone, molti saperi, molta esperienza. Ci sono progetti, programmi, analisi, incontri, ma tutto rimane “nell’aria”, dove emozioni, carattere, soggettività, frustrazioni, stress, orgoglio e ogni altra emozione degli operatori, dei volontari, delle persone accolte e degli amici costituiscono variabili primarie che entrano in contatto tra di loro, determinando, in buona misura, la riuscita o meno della comunità. Gli elementi umani di tutti entrano in una relazione molto stretta e si mettono in gioco: vissuti, desideri, paure, aspirazioni, significati, competenze, fantasmi, proiezioni, simboli. Tutto “materiale” esistenziale, psicologico e spirituale.

Inoltre, spesso, lo scopo dell’agire operativo è il cambiamento dell’altro, che però richiede un cambiamento anticipato di sé: la comunità Il Chicco nasce da un processo di coproduzione. Certamente, all’interno delle situazioni di aiuto alla persona c’è un’ambiguità di fondo nella struttura organizzativa e nelle sue problematicità, che può essere compresa considerando la peculiare presenza del “gioco delle apparenze”. Apparire è manifestarsi, ma anche nascondersi: l’apparire è un imbroglio del percepire. La sua metafora è la maschera che si mostra e nasconde nello stesso momento e, come ha detto Friedrich Nietzsche, “tutto ciò che è profondo ama la maschera”.
L’esempio più chiaro è rappresentato dalla coppia promozione sociale/controllo. Di fatto, anche Il Chicco – come molte altre realtà o dispositivi sociali – rappresenta una moderna forma di controllo sociale soft, mentre viene analizzata, promossa e teorizzata come mezzo per la promozione umana e un miglioramento della qualità della vita delle persone più fragili. In assoluto, l’una e l’altra affermazione – promozione sociale/controllo – se prese da sole sono parziali e non rispondenti totalmente al vero, in quanto rappresentano le due facce di una sola medaglia, ma è indubbio che una delle due “nasconde” l’altra e a essa si oppone in maniera irriducibile. Il “gioco delle apparenze” ha perno sulle seguenti coppie concettuali quali principali e fondamentali, organizzate in due raggruppamenti: dimensione comunitaria/dimensione professionale (promozione sociale/controllo; ideale/ideologico; identità personale/identità professionale; relazione/tecnica; investimento personale/investimento professionale) e aiutare/prendersi cura(ucronia/utopia; progettualità/realizzazione; limite/onnipotenza; richiesta esplicita/richiesta implicita, curare/guarire). Queste coppie si giocano tutte dentro le motivazioni, dentro il desiderio, peraltro spesso sinceramente e profondamente vero e partecipato, di aiuto all’altro e si mescola con il fatto che aiutare vuol dire affermare il proprio benessere, risarcire il contesto e avere la possibilità di essere aiutati.

Occorre avere la consapevolezza e la lucidità di trasformare questo quadro in un altro più realista e “umano”, meno onnipotente, e riuscire ad affermare che mentre si controlla è possibile creare una reale strada di liberazione per qualche persona, che prendersi cura di chi si trova in difficoltà non vuole dire negare le proprie difficoltà, che spesso siamo incapaci di controllare alcuni aspetti ideologici del nostro agire e che, infine, è possibile creare dei “laboratori sociali e relazionali” dove progettare e sperimentare, con mille contraddizioni, una cultura della solidarietà che si affermi come diritto di cittadinanza per tutti.
A volte l’ambiguità si gioca sulla necessità di essere spontanei e veri contro il continuo bisogno e la continua ricerca di indicazioni professionali e tecniche per poter agire meglio e per avere dei saperi su comportamenti di difficile gestione. Tutto ciò sposta sul versante temporale il progetto relazionale e riabilitativo che viene visto e agito come un tempo futuro in cui tutto sarà migliore piuttosto che come la possibilità, nello spazio concreto e fisico della relazione e della quotidianità, di cercare e sperimentare un benessere possibile. Non più luoghi di umanità possibile, ma cambiamenti collocati nel tempo che deve venire. Si rischia di perdere così il bello e il possibile del qui e ora.

All’interno di questo quadro molta attenzione deve essere dedicata agli operatori e ai volontari, considerati come “connessione” tra l’aspetto decisionale e quello operativo, vettori di comunicazione, interfaccia dei codici comunicativi, mediatori delle dinamiche interpersonali. Pertanto, alcune capacità che nel mondo del profit sarebbero definite di tipo manageriale devono essere sviluppate da tutti gli attori comunitari. La capacità, ad esempio, di avere una visione tale del servizio svolto da saper prevedere l’impatto e la conseguenza di una decisione, non solo nello stesso servizio ma anche nei vari settori della comunità (capacità di sintesi). Oppure la capacità di leggere i segnali sia interni che esterni per capire quali possano o potranno essere le aree problema che si andranno a determinare nel tempo (capacità di diagnosi). Inoltre, è essenziale avere la capacità di gestione dei conflitti e delle posizioni (capacità di negoziazione) e la capacità di riportare costantemente l’operatività al modello di intervento scelto, ai valori storici di appartenenza, alla propria mission (capacità di tenuta del modello). Tutto questo deve rimanere in forte sintonia con le strategie di trasformazione del welfare e della sanità. Ciò richiede un sempre maggiore impegno sul versante organizzativo, qualitativo e relazionale, finalizzato all’efficacia, all’efficienza, al controllo di gestione, alla valutazione permanente di ciò che si fa, all’implementazione del lavoro in gruppo, alla partecipazione ai processi decisionali, al lavoro di rete e di sviluppo di comunità.

casa famiglia_sognoOggi chi agisce al Chicco deve essere capace di interagire con conoscenze altre rispetto alle proprie, di integrarsi con le professionalità che ci sono, di far avvenire le cose; deve saper impegnare competenze cognitive ma anche sociali, emotive, comunicative, organizzative; deve metterle in uso e in circolo facendo crescere chi gli sta intorno. I massicci investimenti cognitivi ed emotivi sul compito richiedono peraltro all’organizzazione una continua opera di “manutenzione” e sostegno delle persone. Tutto ciò al fine di evitare che la costante esposizione alla caduta motivazionale, il frequente sentimento di perdita di senso e di intenzionalità progettuale, l’esperienza dolorosa del conflitto tra il dover fare e il “non c’è nulla da fare” possano produrre l’instaurazione di relazioni simbiotiche, stereotipie comunicative e cognitive o reazioni aggressive. Se l’esito dei processi lavorativi che avvengono in una comunità come Il Chicco è essenzialmente un prodotto immateriale ad alto contenuto relazionale e
comunicativo, quasi sempre vengono messe in moto, in maniera consistente, affettività, emotività e processi inconsci. Di conseguenza, il compito di chi vuole aiutare si configura come incerto e complesso.
È necessario lavorare alla continua costruzione di un modello organizzativo differente da quello classico, dove entri in campo un modo di intendere quello che si fa come processo sociale, dove domini il lavoro in équipe, dove si valorizzino le risorse delle reti formali e informali del territorio e di tutte le forze attivabili in una comunità locale. Occorre un costante investimento nelle relazioni sociali, con aspettative di guadagni in benessere generale e diffuso, di cui una moderna democrazia non può fare a meno.

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